Alle ore 11.00 di questa mattina, nella Cappella Sistina, il Santo Padre Leone XIV ha presieduto da Pontefice la sua prima Celebrazione Eucaristica con il Collegio Cardinalizio.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato dopo la proclamazione del Vangelo:
Omelia del Santo Padre
I will begin with a word in English, and the rest is in Italian.
But I want to repeat the words from the Responsorial Psalm: “I will sing a new song to the Lord, because he has done marvels.”
And indeed, not just with me but with all of us. My brother Cardinals, as we celebrate this morning, I invite you to recognize the marvels that the Lord has done, the blessings that the Lord continues to pour out on all of us through the Ministry of Peter.
You have called me to carry that cross, and to be blessed with that mission, and I know I can rely on each and every one of you to walk with me, as we continue as a Church, as a community of friends of Jesus, as believers to announce the Good News, to announce the Gospel.
Da qui, in italiano.
«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Con queste parole Pietro, interrogato dal Maestro, assieme agli altri discepoli, circa la sua fede in Lui, esprime in sintesi il patrimonio che da duemila anni la Chiesa, attraverso la successione apostolica, custodisce, approfondisce e trasmette.
Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, cioè l’unico Salvatore e il rivelatore del volto del Padre.
In Lui Dio, per rendersi vicino e accessibile agli uomini, si è rivelato a noi negli occhi fiduciosi di un bambino, nella mente vivace di un giovane, nei lineamenti maturi di un uomo (cfr Conc. Vat. II, Cost. Past. Gaudium et spes, 22), fino ad apparire ai suoi, dopo la risurrezione, con il suo corpo glorioso. Ci ha mostrato così un modello di umanità santa che tutti possiamo imitare, insieme alla promessa di un destino eterno che invece supera ogni nostro limite e capacità.
Pietro, nella sua risposta, coglie tutte e due queste cose: il dono di Dio e il cammino da percorrere per lasciarsene trasformare, dimensioni inscindibili della salvezza, affidate alla Chiesa perché le annunci per il bene del genere umano. Affidate a noi, da Lui scelti prima che ci formassimo nel grembo materno (cfr Ger 1,5), rigenerati nell’acqua del Battesimo e, al di là dei nostri limiti e senza nostro merito, condotti qui e di qui inviati, perché il Vangelo sia annunciato ad ogni creatura (cfr Mc 16,15).
In particolare poi Dio, chiamandomi attraverso il vostro voto a succedere al Primo degli Apostoli, questo tesoro lo affida a me perché, col suo aiuto, ne sia fedele amministratore (cfr 1Cor 4,2) a favore di tutto il Corpo mistico della Chiesa; così che Essa sia sempre più città posta sul monte (cfr Ap 21,10), arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo. E ciò non tanto grazie alla magnificenza delle sue strutture e per la grandiosità delle sue costruzioni – come i monumenti in cui ci troviamo –, quanto attraverso la santità dei suoi membri, di quel «popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9).
Tuttavia, a monte della conversazione in cui Pietro fa la sua professione di fede, c’è anche un’altra domanda: «La gente – chiede Gesù –, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Non è una questione banale, anzi riguarda un aspetto importante del nostro ministero: la realtà in cui viviamo, con i suoi limiti e le sue potenzialità, le sue domande e le sue convinzioni.
«La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Pensando alla scena su cui stiamo riflettendo, potremmo trovare a questa domanda due possibili risposte, che delineano altrettanti atteggiamenti.
C’è prima di tutto la risposta del mondo. Matteo sottolinea che la conversazione fra Gesù e i suoi circa la sua identità avviene nella bellissima cittadina di Cesarea di Filippo, ricca di palazzi lussuosi, incastonata in uno scenario naturale incantevole, alle falde dell’Hermon, ma anche sede di circoli di potere crudeli e teatro di tradimenti e di infedeltà. Questa immagine ci parla di un mondo che considera Gesù una persona totalmente priva d’importanza, al massimo un personaggio curioso, che può suscitare meraviglia con il suo modo insolito di parlare e di agire. E così, quando la sua presenza diventerà fastidiosa per le istanze di onestà e le esigenze morali che richiama, questo “mondo” non esiterà a respingerlo e a eliminarlo.
C’è poi l’altra possibile risposta alla domanda di Gesù: quella della gente comune. Per loro il Nazareno non è un “ciarlatano”: è un uomo retto, uno che ha coraggio, che parla bene e che dice cose giuste, come altri grandi profeti della storia di Israele. Per questo lo seguono, almeno finché possono farlo senza troppi rischi e inconvenienti. Però lo considerano solo un uomo, e perciò, nel momento del pericolo, durante la Passione, anch’essi lo abbandonano e se ne vanno, delusi.
Colpisce, di questi due atteggiamenti, la loro attualità. Essi incarnano infatti idee che potremmo ritrovare facilmente – magari espresse con un linguaggio diverso, ma identiche nella sostanza – sulla bocca di molti uomini e donne del nostro tempo.
Anche oggi non sono pochi i contesti in cui la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti; contesti in cui ad essa si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere.
Si tratta di ambienti in cui non è facile testimoniare e annunciare il Vangelo e dove chi crede è deriso, osteggiato, disprezzato, o al massimo sopportato e compatito. Eppure, proprio per questo, sono luoghi in cui urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco.
Anche oggi non mancano poi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto.
Questo è il mondo che ci è affidato, nel quale, come tante volte ci ha insegnato Papa Francesco, siamo chiamati a testimoniare la fede gioiosa in Cristo Salvatore. Perciò, anche per noi, è essenziale ripetere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).
È essenziale farlo prima di tutto nel nostro rapporto personale con Lui, nell’impegno di un quotidiano cammino di conversione. Ma poi anche, come Chiesa, vivendo insieme la nostra appartenenza al Signore e portandone a tutti la Buona Notizia (cfr Conc. Vat. II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 1).
Dico questo prima di tutto per me, come Successore di Pietro, mentre inizio questa mia missione di Vescovo della Chiesa che è in Roma, chiamata a presiedere nella carità la Chiesa universale, secondo la celebre espressione di Sant’Ignazio di Antiochia (cfr Lettera ai Romani, Saluto). Egli, condotto in catene verso questa città, luogo del suo imminente sacrificio, scriveva ai cristiani che vi si trovavano: «Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo» (Lettera ai Romani, IV, 1). Si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo – e così avvenne –, ma le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato (cfr Gv 3,30), spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo.
Dio mi dia questa grazia, oggi e sempre, con l’aiuto della tenerissima intercessione di Maria Madre della Chiesa.
Je commencerai par quelques mots en anglais, puis je poursuivrai en italien.
Mais je voudrais répéter les paroles du psaume responsorial : « Je chanterai un cantique nouveau au Seigneur, car il a fait des merveilles ».
Et en effet, pas seulement pour moi, mais pour nous tous. Mes frères cardinaux, alors que nous célébrons ce matin, je vous invite à reconnaître les merveilles que le Seigneur a accomplies, les bénédictions que le Seigneur continue de répandre sur nous tous à travers le ministère de Pierre.
Vous m'avez appelé à porter cette croix et à être béni par cette mission, et je sais que je peux compter sur chacun d'entre vous pour marcher à mes côtés, alors que nous continuons à être une Église, une communauté d'amis de Jésus, des croyants qui annoncent la Bonne Nouvelle, qui annoncent l'Évangile.
« Tu es le Christ, le Fils du Dieu vivant » (Mt 16, 16). Par ces paroles, Pierre, interrogé avec les autres disciples par le Maître sur la foi qu'il a en Lui, exprime en synthèse le patrimoine que l'Église, à travers la succession apostolique, garde, approfondit et transmet depuis deux mille ans.
Jésus est le Christ, le Fils du Dieu vivant, c'est-à-dire l'unique Sauveur et le révélateur du visage du Père.
En Lui, Dieu, pour se faire proche et accessible aux hommes, s'est révélé à nous dans les yeux confiants d'un enfant, dans l'esprit éveillé d'un adolescent, dans les traits mûrs d'un homme (cf. Conc. Vat. II, Const. Past. Gaudium et spes, n. 22), jusqu'à apparaître aux siens, après sa résurrection, dans son corps glorieux. Il nous a ainsi montré un modèle d'humanité sainte que nous pouvons tous imiter, avec la promesse d'une destinée éternelle qui dépasse toutes nos limites et toutes nos capacités.
Dans sa réponse, Pierre saisit ces deux aspects : le don de Dieu et le chemin à parcourir pour se laisser transformer, dimensions indissociables du salut, confiées à l'Église afin qu'elle les annonce pour le bien du genre humain. Confiés à nous, choisis par Lui avant même que nous ayons été formés dans le sein de notre mère (cf. Jr 1, 5), régénérés dans l'eau du Baptême et, au-delà de nos limites et sans aucun mérite de notre part, conduits ici et envoyés d'ici, afin que l'Évangile soit annoncé à toute créature (cf. Mc 16, 15).
En particulier, Dieu, en m'appelant par votre vote à succéder au Premier des Apôtres, me confie ce trésor afin que, avec son aide, j'en sois le fidèle administrateur (cf. 1 Co 4, 2) au profit de tout le Corps mystique de l'Église, de sorte qu'elle soit toujours plus la ville placée sur la montagne (cf. Ap 21, 10), l'arche du salut qui navigue sur les flots de l'histoire, phare qui éclaire les nuits du monde. Et cela, non pas tant grâce à la magnificence de ses structures ou à la grandeur de ses constructions – comme les édifices dans lesquels nous nous trouvons –, mais à travers la sainteté de ses membres, de ce « peuple que Dieu s'est acquis pour proclamer les œuvres admirables de celui qui vous a appelés des ténèbres à son admirable lumière » (1 P 2, 9).
Cependant, en amont de la conversation où Pierre fait sa profession de foi, il y a aussi une autre question : « Au dire des gens, qui est le Fils de l’homme ? » (Mt 16, 13). Ce n'est pas une question anodine, elle touche en effet à un aspect important de notre ministère : la réalité dans laquelle nous vivons, avec ses limites et ses potentialités, ses questions et ses convictions.
« Au dire des gens, qui est le Fils de l'homme ?» (Mt 16, 13). En pensant à la scène sur laquelle nous réfléchissons, nous pourrions trouver deux réponses possibles à cette question qui dessinent deux attitudes différentes.
Il y a tout d'abord la réponse du monde. Matthieu souligne que la conversation entre Jésus et ses disciples sur son identité se déroule dans la belle ville de Césarée de Philippe, riche en palais luxueux, nichée dans un cadre naturel enchanteur, au pied de l'Hermon, mais aussi siège de cercles de pouvoir cruels et théâtre de trahisons et d'infidélités. Cette image nous parle d'un monde qui considère Jésus comme une personne totalement insignifiante, tout au plus un personnage curieux, qui peut susciter l'émerveillement par sa manière inhabituelle de parler et d'agir. Ainsi, lorsque sa présence deviendra gênante en raison de son exigence d'honnêteté et de moralité, ce « monde » n'hésitera pas à le rejeter et à l'éliminer.
Il y a ensuite une autre réponse possible à la question de Jésus : celle du peuple. Pour lui, le Nazaréen n'est pas un « charlatan » : c'est un homme droit, courageux, qui parle bien et dit des choses justes, comme d'autres grands prophètes de l'histoire d'Israël. C'est pourquoi il le suit, du moins tant qu'il peut le faire sans trop de risques ni d'inconvénients. Mais ce n'est qu'un homme, et donc, au moment du danger, lors de la Passion, il l'abandonne et s'en va, déçu.
Ce qui frappe dans ces deux attitudes, c'est leur actualité. Elles incarnent en effet des idées que l'on pourrait facilement retrouver – peut-être exprimées dans un langage différent, mais identiques dans leur substance – dans la bouche de nombreux hommes et femmes de notre temps.
Aujourd'hui encore, nombreux sont les contextes où la foi chrétienne est considérée comme absurde, réservée aux personnes faibles et peu intelligentes ; des contextes où on lui préfère d'autres certitudes, comme la technologie, l'argent, le succès, le pouvoir, le plaisir.
Il s'agit d'environnements où il n'est pas facile de témoigner et d'annoncer l'Évangile, et où ceux qui croient sont ridiculisés, persécutés, méprisés ou, au mieux, tolérés et pris en pitié. Et pourtant, c'est précisément pour cette raison que la mission est urgente en ces lieux, car le manque de foi entraîne souvent des drames tels que la perte du sens de la vie, l'oubli de la miséricorde, la violation de la dignité de la personne sous ses formes les plus dramatiques, la crise de la famille et tant d'autres blessures dont notre société souffre considérablement.
Aujourd'hui encore, il existe des contextes où Jésus, bien qu'apprécié en tant qu'homme, est réduit à une sorte de leader charismatique ou de super-homme, et cela non seulement chez les non-croyants, mais aussi chez nombre de baptisés qui finissent ainsi par vivre, à ce niveau, dans un athéisme de fait.
Tel est le monde qui nous est confié, dans lequel, comme nous l'a enseigné à maintes reprises le Pape François, nous sommes appelés à témoigner de la foi joyeuse en Christ Sauveur. C'est pourquoi, pour nous aussi, il est essentiel de répéter : « Tu es le Christ, le Fils du Dieu vivant » (Mt 16, 16).
Il est essentiel de le faire avant tout dans notre relation personnelle avec Lui, dans l'engagement d'un chemin quotidien de conversion. Mais aussi, en tant qu'Église, en vivant ensemble notre appartenance au Seigneur et en apportant à tous la Bonne Nouvelle (cf. Conc. Vat. II, Const. dogm. Lumen gentium, n. 1).
Je le dis tout d'abord pour moi-même, en tant que Successeur de Pierre, alors que je commence cette mission d'Évêque de l’Église qui est à Rome, appelée à présider dans la charité l'Église universelle, selon la célèbre expression de S. Ignace d’Antioche (cf. Lettre aux Romains, Prologue). Conduit enchaîné vers cette ville, lieu de son sacrifice imminent, il écrivait aux chrétiens qui s'y trouvaient : « Alors je serai vraiment disciple de Jésus-Christ, quand le monde ne verra plus mon corps » (Lettre aux Romains, IV, 1). Il faisait référence au fait d'être dévoré par les bêtes sauvages dans le cirque – et c'est ce qui arriva –, mais ses paroles renvoient de manière plus générale à un engagement inconditionnel pour quiconque exerce un ministère d'autorité dans l'Église : disparaître pour que le Christ demeure, se faire petit pour qu'Il soit connu et glorifié (cf. Jn 3, 30), se dépenser jusqu'au bout pour que personne ne manque l'occasion de Le connaître et de L'aimer.
Que Dieu m'accorde cette grâce, aujourd'hui et toujours, avec l'aide de la très tendre intercession de Marie, Mère de l'Église.
[00525-FR.01] [Texte original: Italien]
“You are the Christ, the Son of the living God” (Mt 16:16). In these words, Peter, asked by the Master, together with the other disciples, about his faith in him, expressed the patrimony that the Church, through the apostolic succession, has preserved, deepened and handed on for two thousand years.
Jesus is the Christ, the Son of the living God: the one Saviour, who alone reveals the face of the Father.
In him, God, in order to make himself close and accessible to men and women, revealed himself to us in the trusting eyes of a child, in the lively mind of a young person and in the mature features of a man (cf. Gaudium et Spes, 22), finally appearing to his disciples after the resurrection with his glorious body. He thus showed us a model of human holiness that we can all imitate, together with the promise of an eternal destiny that transcends all our limits and abilities.
Peter, in his response, understands both of these things: the gift of God and the path to follow in order to allow himself to be changed by that gift. They are two inseparable aspects of salvation entrusted to the Church to be proclaimed for the good of the human race. Indeed, they are entrusted to us, who were chosen by him before we were formed in our mothers’ wombs (cf. Jer 1:5), reborn in the waters of Baptism and, surpassing our limitations and with no merit of our own, brought here and sent forth from here, so that the Gospel might be proclaimed to every creature (cf. Mk 16:15).
In a particular way, God has called me by your election to succeed the Prince of the Apostles, and has entrusted this treasure to me so that, with his help, I may be its faithful administrator (cf. 1 Cor 4:2) for the sake of the entire mystical Body of the Church. He has done so in order that she may be ever more fully a city set on a hill (cf. Rev 21:10), an ark of salvation sailing through the waters of history and a beacon that illumines the dark nights of this world. And this, not so much through the magnificence of her structures or the grandeur of her buildings – like the monuments among which we find ourselves – but rather through the holiness of her members. For we are the people whom God has chosen as his own, so that we may declare the wonderful deeds of him who called us out of darkness into his marvellous light (cf. 1 Pet 2:9).
Peter, however, makes his profession of faith in reply to a specific question: “Who do people say that the Son of Man is?” (Mt 16:13). The question is not insignificant. It concerns an essential aspect of our ministry, namely, the world in which we live, with its limitations and its potential, its questions and its convictions.
“Who do people say that the Son of Man is?” If we reflect on the scene we are considering, we might find two possible answers, which characterize two different attitudes.
First, there is the world’s response. Matthew tells us that this conversation between Jesus and his disciples takes place in the beautiful town of Caesarea Philippi, filled with luxurious palaces, set in a magnificent natural landscape at the foot of Mount Hermon, but also a place of cruel power plays and the scene of betrayals and infidelity. This setting speaks to us of a world that considers Jesus a completely insignificant person, at best someone with an unusual and striking way of speaking and acting. And so, once his presence becomes irksome because of his demands for honesty and his stern moral requirements, this “world” will not hesitate to reject and eliminate him.
Then there is the other possible response to Jesus’ question: that of ordinary people. For them, the Nazarene is not a charlatan, but an upright man, one who has courage, who speaks well and says the right things, like other great prophets in the history of Israel. That is why they follow him, at least for as long as they can do so without too much risk or inconvenience. Yet to them he is only a man, and therefore, in times of danger, during his passion, they too abandon him and depart disappointed.
What is striking about these two attitudes is their relevance today. They embody notions that we could easily find on the lips of many men and women in our own time, even if, while essentially identical, they are expressed in different language.
Even today, there are many settings in which the Christian faith is considered absurd, meant for the weak and unintelligent. Settings where other securities are preferred, like technology, money, success, power, or pleasure.
These are contexts where it is not easy to preach the Gospel and bear witness to its truth, where believers are mocked, opposed, despised or at best tolerated and pitied. Yet, precisely for this reason, they are the places where our missionary outreach is desperately needed. A lack of faith is often tragically accompanied by the loss of meaning in life, the neglect of mercy, appalling violations of human dignity, the crisis of the family and so many other wounds that afflict our society.
Today, too, there are many settings in which Jesus, although appreciated as a man, is reduced to a kind of charismatic leader or superman. This is true not only among non-believers but also among many baptized Christians, who thus end up living, at this level, in a state of practical atheism.
This is the world that has been entrusted to us, a world in which, as Pope Francis taught us so many times, we are called to bear witness to our joyful faith in Jesus the Saviour. Therefore, it is essential that we too repeat, with Peter: “You are the Christ, the Son of the living God” (Mt 16:16).
It is essential to do this, first of all, in our personal relationship with the Lord, in our commitment to a daily journey of conversion. Then, to do so as a Church, experiencing together our fidelity to the Lord and bringing the Good News to all (cf. Lumen Gentium, 1).
I say this first of all to myself, as the Successor of Peter, as I begin my mission as Bishop of Rome and, according to the well-known expression of Saint Ignatius of Antioch, am called to preside in charity over the universal Church (cf. Letter to the Romans, Prologue). Saint Ignatius, who was led in chains to this city, the place of his impending sacrifice, wrote to the Christians there: “Then I will truly be a disciple of Jesus Christ, when the world no longer sees my body” (Letter to the Romans, IV, 1). Ignatius was speaking about being devoured by wild beasts in the arena – and so it happened – but his words apply more generally to an indispensable commitment for all those in the Church who exercise a ministry of authority. It is to move aside so that Christ may remain, to make oneself small so that he may be known and glorified (cf. Jn 3:30), to spend oneself to the utmost so that all may have the opportunity to know and love him.
May God grant me this grace, today and always, through the loving intercession of Mary, Mother of the Church.
[00525-EN.01] [Original text: Italian]
Ich werde mit ein paar Worten auf Englisch beginnen, der Rest ist auf Italienisch.
Doch ich möchte die Worte aus dem Antwortpsalm wiederholen: „Singt dem Herrn ein neues Lied, denn er hat wunderbare Taten vollbracht.“
Und das gilt nicht nur für mich, sondern für uns alle. Meine Mitbrüder Kardinäle, heute Morgen, in dieser heiligen Messe, lade ich euch ein, die Wunder wahrzunehmen, die der Herr vollbracht hat, die Gnaden, die der Herr durch das Petrusamt weiterhin über uns alle ausgießt.
Ihr habt mich gerufen, dieses Kreuz zu tragen und mit dieser Sendung gesegnet zu sein, und ich weiß, dass ich mich auf jeden einzelnen von euch verlassen kann, dass ihr mit mir geht, während wir als Kirche, als Gemeinschaft von Freunden Jesu, als Gläubige weiterhin die Frohe Botschaft, das Evangelium verkünden.
Ab hier auf Italienisch.
»Du bist der Christus, der Sohn des lebendigen Gottes« (Mt 16,16). Als Petrus zusammen mit den anderen Jüngern vom Meister nach seinem Glauben an ihn gefragt wird, bringt er in verdichteter Form zum Ausdruck, was die Kirche durch die apostolische Nachfolge seit zweitausend Jahren als Erbe bewahrt, vertieft und weitergibt.
Jesus ist der Christus, der Sohn des lebendigen Gottes, das heißt der einzige Erlöser. Er offenbart das Antlitz des Vaters.
Um den Menschen nahe und ihnen zugänglich zu sein, hat Gott sich uns in den vertrauensvollen Augen eines Kindes, im lebendigen Geist eines Jugendlichen, in den reifen Zügen eines Mannes offenbart (vgl. Zweites Vatikanisches Konzil, Pastoralkonstitution Gaudium et spes, 22), bis er schließlich den Seinen nach der Auferstehung in seiner verherrlichten Gestalt erschien. So hat er uns ein Vorbild für ein heiliges menschliches Leben gegeben, das wir alle nachahmen können, zusammen mit der Verheißung einer ewigen Bestimmung, die hingegen alle unsere Grenzen und Fähigkeiten übersteigt.
Petrus hält in seiner Antwort beides fest: die Gabe Gottes und den Weg, den man gehen muss, um sich von ihr verwandeln zu lassen. Dies sind zwei untrennbare Dimensionen der Erlösung, die der Kirche anvertraut sind, damit sie sie zum Wohl der Menschheit verkündet. Sie sind uns anvertraut, die wir von ihm auserwählt wurden, bevor wir im Mutterleib geformt wurden (vgl. Jer 1,5), die wir im Wasser der Taufe wiedergeboren und über unsere Grenzen hinaus und ohne unser Verdienst hierhergeführt und von hier ausgesandt worden sind, damit das Evangelium allen Geschöpfen verkündet werde (vgl. Mk 16,15).
In besonderer Weise vertraut Gott, indem er mich durch eure Wahl zum Nachfolger des Ersten der Apostel berufen hat, diesen Schatz mir an, damit ich mit seiner Hilfe ein treuer Verwalter (vgl. 1 Kor 4,2) zum Wohl des gesamten mystischen Leibes der Kirche sei, auf dass sie immer mehr zu einer Stadt auf dem Berg wird (vgl. Offb 21,10), zu einer rettenden Arche, die durch die Wogen der Geschichte steuert, zu einem Leuchtturm, der die Nächte der Welt erhellt. Und dies weniger wegen der Großartigkeit ihrer Strukturen und der Pracht ihrer Bauten – wie die Baudenkmäler, in denen wir uns befinden –, sondern durch die Heiligkeit ihrer Glieder, dieses »Volkes, das sein besonderes Eigentum wurde, damit ihr die großen Taten dessen verkündet, der euch aus der Finsternis in sein wunderbares Licht gerufen hat« (1 Petr 2,9).
Allerdings geht dem Gespräch, in dem Petrus sein Glaubensbekenntnis ablegt, noch eine weitere Frage voraus. Jesus fragt: »Für wen halten die Menschen den Menschensohn?« (Mt 16,13). Das ist keine unbedeutende Frage, sie betrifft vielmehr einen wichtigen Aspekt unseres Dienstes: die Wirklichkeit, in der wir leben, mit ihren Grenzen und Möglichkeiten, mit ihren Fragen und Überzeugungen.
»Für wen halten die Menschen den Menschensohn?« (Mt 16,13). Wenn wir an die Szene denken, die wir gerade betrachten, könnten wir auf diese Frage zwei mögliche Antworten finden, die auch zwei Haltungen beschreiben.
Da ist zunächst die Antwort der Welt. Matthäus betont, dass das Gespräch zwischen Jesus und seinen Jüngern hinsichtlich seiner Identität in der wunderschönen kleinen Stadt Cäsarea Philippi stattfindet, die reich an prächtigen Palästen ist, inmitten einer bezaubernden Naturlandschaft am Fuße des Hermon liegt, aber auch Sitz grausamer Machtzirkel und Schauplatz von Verrat und Untreue ist. Dieses Bild spricht von einer Welt, die Jesus als einen völlig unbedeutenden Menschen betrachtet, höchstens als eine kuriose Figur, die mit ihrer ungewöhnlichen Art zu sprechen und zu handeln Staunen hervorrufen kann. Und so wird diese „Welt“ nicht zögern, ihn zurückzuweisen und zu beseitigen, sobald er aufgrund der Ehrlichkeit und der moralischen Ansprüche, die er einfordert, lästig wird.
Dann gibt es noch die zweite mögliche Antwort auf die Frage Jesu: die der einfachen Leute. Für sie ist der Nazarener kein „Scharlatan“: Er ist ein aufrechter Mann, einer, der Mut hat, der gut spricht und das Richtige sagt, wie andere große Propheten in der Geschichte Israels. Deshalb folgen sie ihm, zumindest solange sie dies ohne allzu große Risiken und Unannehmlichkeiten tun können. Doch er ist für sie nur ein Mensch, und deshalb verlassen auch sie ihn in der Stunde der Gefahr, während seiner Passion, und gehen enttäuscht weg.
Bemerkenswert an diesen beiden Haltungen ist ihre Aktualität. Sie verkörpern nämlich Vorstellungen, die wir leicht – vielleicht in einer anderen Sprache, aber im Wesentlichen gleich – in den Mündern vieler Männer und Frauen unserer Zeit wiederfinden können.
Auch heute wird der christliche Glaube in nicht wenigen Fällen als etwas Absurdes angesehen, als etwas für schwache und wenig intelligente Menschen; vielfach werden andere Sicherheiten wie Technologie, Geld, Erfolg, Macht und Vergnügen bevorzugt.
Es handelt sich um Umfelder, in denen es nicht leicht ist, das Evangelium zu bezeugen und zu verkünden, und in denen Gläubige verspottet, bekämpft, verachtet oder bestenfalls geduldet und bemitleidet werden. Doch gerade deshalb sind dies Orte, die dringend der Mission bedürfen, denn der Mangel an Glauben hat oft dramatische Begleiterscheinungen: dass etwa der Sinn des Lebens verlorengeht, die Barmherzigkeit in Vergessenheit gerät, die Würde des Menschen in den dramatischsten Formen verletzt wird, die Krise der Familie und viele andere Wunden, unter denen unsere Gesellschaft nicht unerheblich leidet.
Vielfach wird Jesus, obwohl er als Mensch geschätzt wird, auch heute bloß als eine Art charismatischer Anführer oder Übermensch gesehen, und zwar nicht nur von Nichtgläubigen, sondern auch von vielen Getauften, die so schließlich in einen faktischen Atheismus geraten.
Dies ist die Welt, die uns anvertraut ist und in der wir, wie Papst Franziskus uns so oft gelehrt hat, berufen sind, den freudigen Glauben an Christus, den Erlöser, zu bezeugen. Deshalb ist es auch für uns unerlässlich, immer neu zu bekennen: »Du bist der Christus, der Sohn des lebendigen Gottes« (Mt 16,16).
Das ist vor allem in unserer persönlichen Beziehung zu ihm von wesentlicher Bedeutung, im Bemühen um einen täglichen Weg der Umkehr. Aber dann auch für uns als Kirche, indem wir gemeinsam unsere Zugehörigkeit zum Herrn leben und allen die Frohe Botschaft bringen (vgl. Zweites Vatikanisches Konzil, Dogmatische Konstitution Lumen gentium, 1).
Ich sage dies vor allem im Blick auf mich selbst, als Nachfolger Petri, der ich diese meine Mission als Bischof der Kirche von Rom beginne, welche berufen ist, der Gesamtkirche in der Liebe vorzustehen, gemäß dem berühmten Wort des heiligen Ignatius von Antiochien (vgl. Brief an die Römer, Gruß). Als er in Ketten in diese Stadt gebracht wurde, an den Ort seines nahenden Lebensopfers, schrieb er an die Christen dort: »Dann werde ich wirklich ein Jünger Jesu Christi sein, wenn die Welt meinen Leib nicht mehr sieht« (Brief an die Römer, IV, 1). Er bezog sich darauf, dass er im Zirkus von wilden Tieren verschlungen werden würde – und so geschah es –, doch seine Worte verweisen in einem allgemeineren Sinn auf eine unverzichtbare Anforderung für alle, die in der Kirche ein Leitungsamt ausüben: zu verschwinden, damit Christus bleibt, sich klein zu machen, damit er erkannt und verherrlicht wird (vgl. Joh 3,30), sich ganz und gar dafür einzusetzen, dass niemandem die Möglichkeit fehlt, ihn zu erkennen und zu lieben.
Gott gebe mir diese Gnade, heute und immer, mit der Hilfe der liebevollen Fürsprache Marias, der Mutter der Kirche.
[00525-DE.01] [Original sprache: Italienisch]
Comienzo con unas palabras en inglés, y el resto será en italiano. Quisiera repetir la frase del salmo responsorial: «Canten al Señor un canto nuevo, porque Él hizo maravillas» (Sal 98,1). Y en efecto, no sólo conmigo, hermanos míos cardenales, sino con todos nosotros, como lo celebramos esta mañana.
Los invito a reconocer las maravillas que el Señor ha hecho, las bendiciones que el Señor sigue derramando sobre todos nosotros, a través del ministerio de Pedro.
Ustedes me han llamado a cargar esa cruz y a ser bendecido con esa misión. Y sé que puedo contar con todos y cada uno de ustedes para caminar conmigo, mientras continuamos, como Iglesia, como comunidad de amigos de Jesús, como creyentes, anunciando la Buena Nueva y proclamando el Evangelio.
«Tú eres el Mesías, el Hijo de Dios vivo» (Mt 16,16). Con estas palabras Pedro, interrogado por el Maestro junto con los otros discípulos sobre su fe en Él, expresa en síntesis el patrimonio que desde hace dos mil años la Iglesia, a través de la sucesión apostólica, custodia, profundiza y trasmite.
Jesús es el Cristo, el Hijo de Dios vivo, es decir, el único Salvador y el que nos revela el rostro del Padre.
En Él Dios, para hacerse cercano a los hombres, se ha revelado a nosotros en los ojos confiados de un niño, en la mente inquieta de un joven, en los rasgos maduros de un hombre (cf. Concilio Vaticano II, Const. pastoral Gaudium et spes, 22), hasta aparecerse a los suyos, después de la resurrección, con su cuerpo glorioso. Nos ha mostrado así un modelo de humanidad santa que todos podemos imitar, junto con la promesa de un destino eterno que, sin embargo, supera todos nuestros límites y capacidades.
Pedro, en su respuesta, asume ambas cosas: el don de Dios y el camino que se debe recorrer para dejarse transformar, dimensiones inseparables de la salvación, confiadas a la Iglesia para que las anuncie por el bien de la humanidad. Nos las confía a nosotros, elegidos por Él antes de que nos formásemos en el vientre materno (cf. Jr 1,5), regenerados en el agua del Bautismo y, más allá de nuestros límites y sin ningún mérito propio, conducidos aquí y desde aquí enviados, para que el Evangelio se anuncie a todas las criaturas (cf. Mc 16,15).
Dios, de forma particular, al llamarme a través del voto de ustedes a suceder al primero de los Apóstoles, me confía este tesoro a mí, para que, con su ayuda, sea su fiel administrador (cf. 1 Co 4,2) en favor de todo el Cuerpo místico de la Iglesia; de modo que esta sea cada vez más la ciudad puesta sobre el monte (cf. Ap 21,10), arca de salvación que navega a través de las mareas de la historia, faro que ilumina las noches del mundo. Y esto no tanto gracias a la magnificencia de sus estructuras y a la grandiosidad de sus construcciones —como los monumentos en los que nos encontramos—, sino por la santidad de sus miembros, de ese «pueblo adquirido para anunciar las maravillas de aquel que los llamó de las tinieblas a su admirable luz» (1 P 2,9).
Con todo, por encima de la conversación en la que Pedro hace su profesión de fe, hay otra pregunta: «¿Qué dice la gente —pregunta Jesús—sobre el Hijo del hombre? ¿Quién dicen que es?» (Mt 16,13). No es una cuestión banal, al contrario, concierne a un aspecto importante de nuestro ministerio: la realidad en la que vivimos, con sus límites y sus potencialidades, sus cuestionamientos y sus convicciones.
«¿Qué dice la gente sobre el Hijo del hombre? ¿Quién dicen que es?» (Mt 16,13). Pensando en la escena sobre la que estamos reflexionando, podremos encontrar dos posibles respuestas a esta pregunta, que delinean otras tantas actitudes.
En primer lugar, está la respuesta del mundo. Mateo señala que la conversación entre Jesús y los suyos acerca de su identidad sucede en la hermosa ciudad de Cesarea de Filipo, rica de palacios lujosos, engarzada en un paraje natural encantador, a las faldas del Hermón, pero también sede de círculos crueles de poder y teatro de traiciones y de infidelidades. Esta imagen nos habla de un mundo que considera a Jesús una persona que carece totalmente de importancia, al máximo un personaje curioso, que puede suscitar asombro con su modo insólito de hablar y de actuar. Y así, cuando su presencia se vuelva molesta por las instancias de honestidad y las exigencias morales que solicita, este mundo no dudará en rechazarlo y eliminarlo.
Hay también otra posible respuesta a la pregunta de Jesús, la de la gente común. Para ellos el Nazareno no es un charlatán, es un hombre recto, un hombre valiente, que habla bien y que dice cosas justas, como otros grandes profetas de la historia de Israel. Por eso lo siguen, al menos hasta donde pueden hacerlo sin demasiados riesgos e inconvenientes. Pero lo consideran sólo un hombre y, por eso, en el momento del peligro, durante la Pasión, también ellos lo abandonan y se van, desilusionados.
Llama la atención la actualidad de estas dos actitudes. Ambas encarnan ideas que podemos encontrar fácilmente —tal vez expresadas con un lenguaje distinto, pero idénticas en la sustancia— en la boca de muchos hombres y mujeres de nuestro tiempo.
Hoy también son muchos los contextos en los que la fe cristiana se retiene un absurdo, algo para personas débiles y poco inteligentes, contextos en los que se prefieren otras seguridades distintas a la que ella propone, como la tecnología, el dinero, el éxito, el poder o el placer.
Hablamos de ambientes en los que no es fácil testimoniar y anunciar el Evangelio y donde se ridiculiza a quien cree, se le obstaculiza y desprecia, o, a lo sumo, se le soporta y compadece. Y, sin embargo, precisamente por esto, son lugares en los que la misión es más urgente, porque la falta de fe lleva a menudo consigo dramas como la pérdida del sentido de la vida, el olvido de la misericordia, la violación de la dignidad de la persona en sus formas más dramáticas, la crisis de la familia y tantas heridas más que acarrean no poco sufrimiento a nuestra sociedad.
No faltan tampoco los contextos en los que Jesús, aunque apreciado como hombre, es reducido solamente a una especie de líder carismático o a un superhombre, y esto no sólo entre los no creyentes, sino incluso entre muchos bautizados, que de ese modo terminan viviendo, en este ámbito, un ateísmo de hecho.
Este es el mundo que nos ha sido confiado, y en el que, como enseñó muchas veces el Papa Francisco, estamos llamados a dar testimonio de la fe gozosa en Jesús Salvador. Por esto, también para nosotros, es esencial repetir: «Tú eres el Mesías, el Hijo de Dios vivo» (Mt 16,16).
Es fundamental hacerlo antes de nada en nuestra relación personal con Él, en el compromiso con un camino de conversión cotidiano. Pero también, como Iglesia, viviendo juntos nuestra pertenencia al Señor y llevando a todos la Buena Noticia (cf. Concilio Vaticano II, Const. dogmática, Lumen gentium, 1).
Lo digo ante todo por mí, como Sucesor de Pedro, mientras inicio mi misión de Obispo de la Iglesia que está en Roma, llamada a presidir en la caridad la Iglesia universal, según la célebre expresión de S. Ignacio de Antioquía (cf. Carta a los Romanos, Proemio). Él, conducido en cadenas a esta ciudad, lugar de su inminente sacrificio, escribía a los cristianos que allí se encontraban: «en ese momento seré verdaderamente discípulo de Cristo, cuando el mundo ya no verá más mi cuerpo» (Carta a los Romanos, IV, 1). Hacía referencia a ser devorado por las fieras del circo —y así ocurrió—, pero sus palabras evocan en un sentido más general un compromiso irrenunciable para cualquiera que en la Iglesia ejercite un ministerio de autoridad, desaparecer para que permanezca Cristo, hacerse pequeño para que Él sea conocido y glorificado (cf. Jn 3,30), gastándose hasta el final para que a nadie falte la oportunidad de conocerlo y amarlo.
Que Dios me conceda esta gracia, hoy y siempre, con la ayuda de la tierna intercesión de María, Madre de la Iglesia.
[00525-ES.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Começarei com uma palavra em inglês. O resto será em italiano.
Porém, desejo repetir as palavras do Salmo Responsorial: “Cantai ao Senhor um cântico novo, pelas maravilhas que Ele operou”.
E, na verdade, não só comigo, mas com todos nós. Caros irmãos Cardeais, enquanto celebramos nesta manhã, convido-vos a reconhecer as maravilhas que o Senhor fez, as bênçãos que o Senhor continua a derramar a todos nós através do Ministério de Pedro.
Vós chamastes-me a carregar esta cruz e a ser abençoado com esta missão, e eu sei que posso contar com todos e cada um de vós para caminhardes comigo, enquanto como Igreja, como comunidade de amigos de Jesus e como fiéis continuamos a anunciar a Boa Nova, a anunciar o Evangelho.
[A partir daqui, continua em italiano]
«Tu és o Messias, o Filho de Deus vivo» (Mt 16, 16). Com estas palavras, Pedro, interrogado juntamente com os outros discípulos pelo Mestre, sobre a sua fé n’Ele, expressa em síntese o tesouro que a Igreja, através da sucessão apostólica, guarda, aprofunda e transmite há dois mil anos.
Jesus é o Messias, o Filho do Deus vivo, ou seja, o único Salvador, que revela o rosto do Pai.
N’Ele, para se tornar próximo e acessível aos homens, Deus revelou-se nos olhos confiantes de uma criança, na mente viva de um jovem, na fisionomia madura de um homem (cf. Conc. Vat. II, Const. Past. Gaudium et spes, 22), até aparecer aos seus, após a ressurreição, com o seu corpo glorioso. Mostrou-nos assim um modelo de humanidade santa que todos podemos imitar, juntamente com a promessa de um destino eterno, que ultrapassa todos os nossos limites e capacidades.
Na sua resposta, Pedro compreende ambas as coisas: o dom de Deus e o caminho a percorrer para se deixar transformar, dimensões inseparáveis da salvação, confiadas à Igreja para que as anuncie a bem da humanidade. Confiadas a nós, escolhidos por Ele antes de sermos formados no ventre materno (cf. Jr 1, 5), regenerados na água do Batismo e, apesar dos nossos limites e sem mérito nosso, conduzidos até aqui e daqui enviados, para que o Evangelho seja anunciado a toda a criatura (cf. Mc 16, 15).
E Deus, de modo particular, chamando-me através do vosso voto a suceder ao Primeiro dos Apóstolos, confia-me este tesouro para que, com a sua ajuda, eu seja seu fiel administrador (cf. 1 Cor 4, 2) em benefício de todo o Corpo místico da Igreja; para que ela seja cada vez mais cidade colocada sobre o monte (cf. Ap 21, 10), arca de salvação que navega sobre as ondas da história, farol que ilumina as noites do mundo. E isto não tanto pela magnificência das suas estruturas e pela grandiosidade dos seus edifícios – como estes monumentos em que nos encontramos – mas pela santidade dos seus membros, do povo que Deus adquiriu, a fim de proclamar as maravilhas daquele que o chamou das trevas para a sua luz admirável (cf. 1 Pe 2, 9).
No entanto, antes do diálogo em que Pedro faz a sua profissão de fé, há uma outra pergunta: «Quem dizem os homens», interpela Jesus «que é o Filho do Homem?» (Mt 16, 13). Não se trata de uma pergunta banal, diz antes respeito a um aspecto importante do nosso ministério: a realidade em que vivemos, com os seus limites e potencialidades, as suas interrogações e convicções.
«Quem dizem os homens que é o Filho do Homem?» (Mt 16, 13). Pensando nesta cena, refletindo sobre ela, poderíamos encontrar duas possíveis respostas a esta pergunta e traçar outras tantas atitudes.
Em primeiro lugar, há a resposta do mundo. Mateus sublinha que o diálogo entre Jesus e os seus sobre a identidade d’Ele tem lugar na belíssima cidade de Cesareia de Filipe, cheia de palácios luxuosos, inserida numa paisagem natural encantadora, no sopé do Hermon, mas também sede de círculos de poder cruéis e palco de traições e infidelidades. Esta imagem fala-nos de um mundo que considera Jesus uma pessoa totalmente desprovida de importância, quando muito uma personagem curiosa, capaz de suscitar admiração com a sua maneira invulgar de falar e agir. Por isso, quando a sua presença se tornará incómoda, devido aos pedidos de honestidade e às exigências morais que invoca, este “mundo” não hesitará em rejeitá-lo e eliminá-lo.
Depois, há uma outra possível resposta à pergunta de Jesus: a das pessoas comuns. Para elas, o Nazareno não é um “charlatão”: é um homem justo, corajoso, que fala bem e que diz coisas certas, como outros grandes profetas da história de Israel. Por isso, seguem-no, pelo menos enquanto podem fazê-lo sem demasiados riscos ou inconvenientes. Porém, porque essas pessoas o consideram apenas um homem, no momento do perigo, durante a Paixão, também elas o abandonam e vão embora, desiludidas.
Impressiona a atualidade destas duas atitudes. Com efeito, elas encarnam ideias que poderíamos facilmente reencontrar – talvez expressas com uma linguagem diferente, mas essencialmente idênticas – nos lábios de muitos homens e mulheres do nosso tempo.
Ainda hoje não faltam contextos em que a fé cristã é considerada uma coisa absurda, para pessoas fracas e pouco inteligentes; contextos em que em vez dela se preferem outras seguranças, como a tecnologia, o dinheiro, o sucesso, o poder e o prazer.
São ambientes onde não é fácil testemunhar nem anunciar o Evangelho, e onde quem acredita se vê ridicularizado, contrastado, desprezado, ou, quando muito, suportado e digno de pena. No entanto, precisamente por isso, são lugares onde a missão se torna urgente, porque a falta de fé, muitas vezes, traz consigo dramas como a perda do sentido da vida, o esquecimento da misericórdia, a violação – sob as mais dramáticas formas – da dignidade da pessoa, a crise da família e tantas outras feridas das quais a nossa sociedade sofre, e não pouco.
Ainda hoje, não faltam contextos nos quais Jesus, embora apreciado como homem, é simplesmente reduzido a uma espécie de líder carismático ou super-homem, e isto não apenas entre os não crentes, mas também entre muitos batizados, que acabam por viver, a este nível, num ateísmo prático.
Este é o mundo que nos está confiado e no qual, como tantas vezes nos ensinou o Papa Francisco, somos chamados a testemunhar a alegria da fé em Cristo Salvador. Por isso, também para nós, é essencial repetir: «Tu és o Messias, o Filho de Deus vivo» (Mt 16, 16).
É essencial fazê-lo, primeiramente, na nossa relação pessoal com Ele, no empenho em percorrer um caminho quotidiano de conversão. Mas depois também, como Igreja, vivendo juntos a nossa pertença ao Senhor e levando a todos a sua Boa Nova (cf. Conc. Vat. II, Const. Dogm. Lumen gentium, 1).
Digo isto, em primeiro lugar, para mim mesmo, como Sucessor de Pedro, ao iniciar esta minha missão de Bispo da Igreja que está em Roma, chamada a presidir na caridade à Igreja universal, segundo a célebre expressão de Santo Inácio de Antioquia (cf. Carta aos Romanos, Proémio). Ele, enquanto era conduzido como prisioneiro a esta cidade, lugar do seu iminente sacrifício, escrevia aos cristãos que aqui se encontravam: «Então serei verdadeiro discípulo de Jesus, quando o meu corpo for subtraído à vista do mundo» (Carta aos Romanos, IV, 1). Referia-se ao ser devorado pelas feras no circo – como aconteceu –; porém, as suas palavras recordam, num sentido mais amplo, um compromisso irrenunciável para quem, na Igreja, exerce um ministério de autoridade: desaparecer para que Cristo permaneça, fazer-se pequeno para que Ele seja conhecido e glorificado (cf. Jo 3, 30), gastar-se até ao limite para que a ninguém falte a oportunidade de O conhecer e amar.
Que Deus me dê esta graça, hoje e sempre, com a ajuda da terna intercessão de Maria, Mãe da Igreja.
[00525-PO.01] [Texto original: Italiano]
Zacznę od kilku słów po angielsku, a reszta będzie po włosku.
Chciałbym jednak powtórzyć słowa Psalmu responsoryjnego: „Będę śpiewał Panu pieśń nową, albowiem cuda uczynił”.
I rzeczywiście, nie tylko mnie, ale nam wszystkim. Bracia Kardynałowie, podczas dzisiejszej porannej celebracji, zapraszam was do uznania cudów, które Pan uczynił, błogosławieństw, którymi Pan nadal obdarza nas wszystkich poprzez Posługę Piotrową.
Wezwaliście mnie, abym niósł ten krzyż i został obdarzony tą misją, i wiem, że mogę polegać na każdym z was, gdy razem będziemy kroczyli, gdy będziemy kontynuować – jako Kościół, jako wspólnota przyjaciół Jezusa, jako wierzący – zwiastować Dobrą Nowinę, głosić Ewangelię.
***
„Ty jesteś Mesjasz, Syn Boga żywego” (Mt 16, 16). Tymi słowami Piotr, zapytany przez Mistrza, wraz z innymi uczniami, o jego wiarę w Niego, syntetycznie wyraża dziedzictwo, które od dwóch tysięcy lat, Kościół, poprzez sukcesję apostolską, strzeże, pogłębia i przekazuje.
Jezus jest Mesjaszem, Synem Boga żywego, czyli jedynym Zbawicielem i objawiającym oblicze Ojca.
W Nim, Bóg, aby stać się bliskim i dostępnym dla ludzi, objawił się nam w ufnym spojrzeniu dziecka, w żywym umyśle młodzieńca, w dojrzałych rysach mężczyzny (por. Sobór Watykański II, Konstytucja duszpasterska Gaudium et spes, 22), aż do ukazania się swym [uczniom] po zmartwychwstaniu w swoim chwalebnym ciele. W ten sposób pokazał nam wzór świętego człowieczeństwa, który wszyscy możemy naśladować, wraz z obietnicą wiecznego przeznaczenia, które przekracza jednak wszelkie nasze ograniczenia i możliwości.
Piotr w swojej odpowiedzi uchwycił obie te kwestie: dar Boży i drogę, którą należy przebyć, aby pozwolić się przemienić, nieodłączne wymiary zbawienia, powierzone Kościołowi, aby głosił je dla dobra rodzaju ludzkiego. Są one powierzone nam, wybranym przez Niego, zanim jeszcze zostaliśmy ukształtowani w łonie matki (por. Jr 1, 5), odrodzeni w wodach chrztu i – ponad naszymi ograniczeniami, bez naszej zasługi – przyprowadzeni tutaj i stąd wysłani, aby Ewangelia była głoszona wszystkim stworzeniom (por. Mk 16, 15).
Bóg, powołując mnie poprzez wasz głos na Następcę Pierwszego z Apostołów, powierza mi ten skarb, abym z Jego pomocą był jego wiernym szafarzem (por. 1 Kor 4, 2) na rzecz całego mistycznego Ciała Kościoła; tak aby Kościół był coraz bardziej miastem położonym na górze (por. Ap 21, 10), arką zbawienia płynącą po falach historii, latarnią morską, która oświetla noce świata. I to nie tyle dzięki wspaniałości jego struktur lub wielkości jego budowli – takich jak zabytki, w których się znajdujemy – lecz dzięki świętości jego członków, tego „ludu [Bogu] na własność przeznaczonego, aby ogłaszał chwalebne dzieła Tego, który ich wezwał z ciemności do przedziwnego swojego światła” (por. 1 P 2, 9).
Jednak, przed rozmową, w której Piotr wyznaje swoją wiarę, jest jeszcze jedno pytanie – pyta Jezus: „Za kogo ludzie uważają Syna Człowieczego?” (Mt 16, 13). Nie jest to pytanie banalne, przeciwnie, dotyczy ono ważnego aspektu naszej posługi: rzeczywistości, w której żyjemy, z jej ograniczeniami i możliwościami, z jej pytaniami i przekonaniami.
„Za kogo ludzie uważają Syna Człowieczego?” (Mt 16, 13). Myśląc o scenie, nad którą się zastanawiamy, możemy znaleźć dwie możliwe odpowiedzi na to pytanie, które wyznaczają odpowiednio dwie różne postawy.
Przed wszystkim jest odpowiedź świata. Mateusz podkreśla, że rozmowa pomiędzy Jezusem a Jego uczniami na temat Jego tożsamości odbywa się w przepięknym miasteczku Cezarea Filipowa, bogatym w luksusowe pałace, położonym w uroczej scenerii naturalnej, u podnóża góry Hermon, ale będącym także siedzibą okrutnych kręgów władzy oraz teatrem zdrad i niewierności. Obraz ten mówi nam o świecie, który uważa Jezusa za osobę całkowicie pozbawioną znaczenia, co najwyżej za ciekawą postać, która może wzbudzać zdziwienie swoim niezwykłym sposobem mówienia i postępowania. I tak, kiedy Jego obecność stanie się uciążliwa dla wymagań uczciwości i moralności, które On stawia, ten „świat” nie zawaha się odrzucić Go i wyeliminować.
Jest też inna możliwa odpowiedź na pytanie Jezusa: ta, zwykłych ludzi. Dla nich, Nazarejczyk nie jest jakimś „szarlatanem”: jest człowiekiem prawym, człowiekiem, który ma odwagę, który przemawia dobrze i mówi właściwe rzeczy, tak jak inni wielcy prorocy historii Izraela. Dlatego idą za Nim, przynajmniej dopóki mogą to robić bez większego ryzyka i niedogodności. Jednak uważają Go jedynie za człowieka i dlatego w chwili niebezpieczeństwa, podczas Męki, oni również Go opuszczają i odchodzą, rozczarowani.
Uderzająca jest aktualność tych dwóch postaw. Ucieleśniają one bowiem idee, które moglibyśmy łatwo odnaleźć na ustach wielu mężczyzn i kobiet naszych czasów – być może wyrażone innym językiem, ale identyczne w swej istocie
Również dzisiaj nie brakuje kontekstów, w których wiara chrześcijańska jest uważana za coś absurdalnego, przeznaczonego dla osób słabych i mało inteligentnych; kontekstów, w których przedkłada się nad nią inne zabezpieczeni, takie jak technologia, pieniądze, sukces, władza, przyjemności.
Są to środowiska, w których nie jest łatwo świadczyć i głosić Ewangelię, a człowiek wierzący jest wyśmiewany, prześladowany, pogardzany lub co najwyżej tolerowany i traktowany z litością. A jednak właśnie dlatego są to miejsca, w których misja jest pilna, ponieważ brak wiary często pociąga za sobą dramaty, takie jak utrata sensu życia, zapomnienie o miłosierdziu, naruszanie godności osoby ludzkiej w jej najbardziej dramatycznych formach, kryzys rodziny i wiele innych ran, przez które cierpi nasze społeczeństwo, i to nie mało.
Również dzisiaj nie brakuje kontekstów, w których Jezus, choć ceniony jako człowiek, jest sprowadzany jedynie do roli charyzmatycznego lidera lub superczłowieka, i to nie tylko wśród niewierzących, ale także wśród wielu ochrzczonych, którzy w ten sposób kończą żyjąc – na tym poziomie – w faktycznym ateizmie.
To jest świat, który został nam powierzony, w którym, jak wielokrotnie nauczał nas Papież Franciszek, jesteśmy wezwani do świadczenia radosnej wiary w Chrystusa Zbawiciela. Dlatego też, także dla nas niezbędne jest powtarzanie: „Ty jesteś Mesjasz, Syn Boga żywego” (Mt 16, 16).
Niezbędne jest, abyśmy to czynili przede wszystkim w naszej osobistej relacji z Nim, w wysiłku codziennej drogi nawrócenia. Ale następnie, także jako Kościół, wspólnie przeżywając naszą przynależność do Pana i niosąc wszystkim Dobrą Nowinę (por. Sobór Watykański II, Konstytucja dogmatyczna Lumen gentium, 1).
Mówię to przede wszystkim do siebie, jako Następcy Piotra, kiedy rozpoczynam tę moją misję Biskupa Kościoła, który jest w Rzymie, powołanego do przewodzenia w miłości Kościołowi powszechnemu, zgodnie ze słynnym stwierdzeniem św. Ignacego z Antiochii (por. List do Rzymian, Prolog). Wysłany w kajdanach do tego miasta, miejsca swojej zbliżającej się ofiary, pisał on do chrześcijan, którzy się tam znajdowali: „Wtedy będę naprawdę uczniem Jezusa Chrystusa, kiedy nawet ciała mego świat widzieć nie będzie” (List do Rzymian, IV, 1). Odnosił się do tego, że zostanie pożarty przez dzikie zwierzęta w cyrku – i tak się stało – ale jego słowa odnoszą się, w szerszym sensie, do nieodzownego zobowiązania każdego, kto pełni w Kościele posługę władzy: zniknąć, aby pozostał Chrystus, stać się się małym, aby On był poznany i uwielbiony (por. J 3, 30), poświęcić się do końca, aby nikomu nie zabrakło możliwości poznania Go i kochania.
Niech Bóg obdarza mnie tą łaską dzisiaj i zawsze, z pomocą najczulszego wstawiennictwa Maryi, Matki Kościoła.
[00525-PL.01] [Testo originale: Italiano]
عظة قداسة البابا لاوُن الرَّابع عشر
في القدّاس الإلهيّ مع الكرادلة النَّاخبين
يوم الجمعة 9 أيَّار/مايو 2025
كابيلا سيستينا
سأبدأ كلامي باللغة الإنجليزيّة، وسأُكمل الباقي باللغة الإيطاليّة.
أرغب في أن أكرّر كلمات مزمور الرّدّة: ”سأُنشِدُ للرّبّ نشيدًا جديدًا، لأنّه صنع العجائب“.
في الحقيقة، لم يصنع ذلك معي فقط، بل معنا جميعًا. أيّها الإخوة الكرادلة، ونحن نحتفل معًا هذا الصّباح في القدّاس الإلهيّ، أدعوكم إلى أن تعترفوا بالعجائب التي صنعها الرّبّ، وبالبركات التي لا يزال يفيضها على كلّ واحد منّا، من خلال خدمة بطرس.
أنتم دعوتموني إلى أن أحمل هذا الصّليب، وأكون مباركًا بهذه الرّسالة، وأعلم أنّني أستطيع أن أعتمد على كلّ واحد منكم كي تسيروا معي، فيما نواصل المسيرة بكوننا كنيسة، وجماعة مؤمنين أصدقاء ليسوع، ومؤمنين لنُعلن البشرى السّارّة.
"أَنتَ المسيحُ ابنُ اللهِ الحَيّ" (متّى 16، 16). بهذه الكلمات عبَّر بطرس باختصار، عندما سأله المعلّم والتّلاميذ الآخرين عن إيمانه به، وهو التّراث الذي ما فتئت الكنيسة منذ ألفي سنة تحافظ عليه وتعمّقه وتنقله عبر الخلافة الرّسوليّة.
يسوع هو المسيح، ابن الله الحيّ، أيّ المخلِّص الوحيد الذي كشف لنا عن وجه الآب.
الله، لكي يجعل نفسه قريبًا للبشر ويصل إليه الجميع، كشف لنا عن نفسه، في عينَي طفل مليء بالثّقة، وفي عقل شابّ مفعم بالحياة، وفي ملامح رجل ناضج (راجع المجمع الفاتيكانيّ الثّاني، دستور رعائي في الكنيسة في عالم اليوم، فرح ورجاء، 22)، إلى أن ظهر لتلاميذه، بعد القيامة من بين الأموات، بجسده الممجّد. وهكذا بَيَّن لنا نفسه نموذجًا للإنسان المقدّس الذي يمكننا جميعًا أن نقتدي به، وقد وعدنا أيضًا بمصير أبديّ يفوق كلّ حدودنا وقدراتنا.
أدرك بطرس في جوابه ليسوع هذين الأمرَين معًا: عطيّة الله والطّريق التي يجب أن يسلكها لكي يترك نفسه تتحوّل، وهما بُعدان للخلاص لا ينفصلان، أُعطِيا للكنيسة لتبشِّر بهما من أجل خير الجنس البشريّ. وعُهِدَ بهما إلينا أيضًا، نحن الذين اختارنا من قبل أن يصوِّرنا في البطن (راجع إرميا 1، 5)، وولدنا من جديد في ماء المعموديّة، ثمّ، من دون أيّ استحقاق منا وفوق كلّ حدودنا، قادنا إلى هنا، ومن هنا أرسلنا، لكي يُعلَن الإنجيل لكلّ الخليقة (راجع مرقس 16، 15).
ثمَّ إنّ الله الذي دعاني من خلال تصويتكم، إلى أن أكون خليفة أوّل الرّسل، وضع هذا الكنز بين يديَّ لكي أكون، بمعونته، وكيلًا أمينًا عليه (راجع 1 قورنتس 4، 2) لخير جسد الكنيسة السّرّيّ كلّه، لكي تكون دائمًا المدينة المبنيّة على الجبل (راجع رؤيا يوحنّا 21، 10)، وسفينة الخلاص التي تُبحر عبر أمواج التّاريخ، والمنارة التي تُنير ليالي العالم. وذلك ليس بفضل روعة هيكليّاتها أو كِبَر مبانيها – مثل هذا المَعلَمِ الذي نحن موجودون فيه – بل بقداسة أعضائها، وهو "شَعْبٌ اقتَناه اللهُ لِلإِشادةِ بِآياتِ الَّذي دَعاكم مِنَ الظُّلُماتِ إِلى نُورِه العَجيب" (1 بطرس 2، 9).
مع ذلك، وقبل المحادثة التي أعلن فيها بطرس عن إيمانه، هناك أيضًا سؤال آخر: سأل يسوع "مَنِ ابنُ الإِنسانِ في قَولِ النَّاس؟" (متّى 16، 13). هذا ليس سؤالًا بسيطًا، بل يعبِّر عن جانب مهمّ من خدمتنا: الواقع الذي نعيش فيه، بحدوده وإمكاناته، وأسئلته وقناعاته.
"مَنِ ابنُ الإِنسانِ في قَولِ النَّاس؟" (متّى 16، 13). إن فكّرنا في الحادثة التي نتأمّل فيها، يمكن أن نجد جوابَين محتملَين على هذا السّؤال، وهما يمثّلان موقفَين متناقضَين.
أوّلًا جواب العالم. يقول الإنجيليّ متّى إنّ المحادثة بين يسوع وتلاميذه حول هويّته جَرَت في مدينة قيصريّة فيلبس الجميلة، المليئة بالقصور الفخمة، والمحاطة بمناظر طبيعيّة ساحرة، على سفوح جبل حرمون، وهي أيضًا مركز لدوائر سلطة قاسية ومسرح خيانات وعدم أمانة. هذه الصّورة تعبِّر عن عالم يعتبر يسوع شخصًا لا أهمّيّة له على الإطلاق، أو على الأكثر شخصيّة غريبة يثير الإعجاب بطريقته غير العاديّة في الكلام والأعمال. أمّا إذا صار حضوره مزعجًا لما يستدعيه من صدق ومطالب أخلاقيّة، فلن يتردّد هذا ”العالم“ عن رفضه وتصفيته.
وثانيًا الجواب الآخر المحتمل على سؤال يسوع هو جواب عامّة النّاس. بالنّسبة لهم، يسوع النّاصريّ ليس ”ثرثارًا“، بل رجل صالح، وشجاع، يتكلَّم جيِّدًا ويقول كلامًا عادلًا، مثل غيره من الأنبياء الكبار في تاريخ إسرائيل. لهذا تبعوه، على الأقلّ ما داموا يستطيعون ذلك دون مخاطر وإزعاجات كبيرة. لكنّهم اعتبروه إنسانًا فقط، ولذلك، في لحظة الخطر، وأثناء آلامه، هم أيضًا تخلّوا عنه وذهبوا محبطين.
ما يلفت الانتباه في هذين الموقفَين هو تعبيرهما عن واقع اليوم. فيهما في الواقع أفكار يمكن أن نجدها بسهولة على ألسنة الرّجال والنّساء الكثيرين في عصرنا، ربّما بتعابير أو لغة مختلفة، ولكنّها نفسها من حيث المضمون.
اليوم أيضًا، الأماكن التي يُعتبر فيها الإيمان المسيحيّ أمرًا عبثيًّا ليست قليلة، فهو للضّعفاء وغير الأذكياء، ويفضّلون عليه مجالات وضمانات أخرى، مثل التّكنولوجيا والمال والنّجاح والسُّلطة والمتعة.
هذه أماكن ومجالات يصعب فيها أن نشهد للإنجيل وأن نبشِّر به، وفيها يتعرّض المؤمنون للسّخرية أو المعارضة أو الاحتقار، أو في أفضل الأحوال يتحمّلهم النّاس ويشفقون عليهم. مع ذلك، فهي أماكن ومجالات تستدعي الرّسالة، لأنّ غياب الإيمان يجلب معه مرارًا مآسي مثل فقدان معنى الحياة، ونسيان الرّحمة، والاعتداء على كرامة الإنسان في أقسى أشكاله، وأزمة العائلة، وجراح أخرى كثيرة يتألّم منها مجتمعنا بشدّة.
اليوم أيضًا، لا تغيب المجالات والظّروف التي يُقدَّرُ فيها يسوع كإنسان، لكن يتِمّ اختصاره إلى مجرّد نوع من قائد كاريزميّ أو رجل خارق (سوبرمان). وهذا ليس فقط بين غير المؤمنين، بل أيضًا بين الكثيرين من المعمّدين، الذين ينتهي بهم الأمر، في هذا الحال، إلى أن يعيشوا في إلحاد فعليّ.
هذا هو العالم الذي أُوكل إلينا، حيث نحن مدعوّون إلى أن نشهد للإيمان بالمسيح المخلّص وبفرح، كما علّمنا البابا فرنسيس مرّات عديدة. لذلك، بالنّسبة لنا أيضًا، من الضّروري أن نردّد: "أَنتَ المسيحُ ابنُ اللهِ الحَيّ" (متّى 16، 16).
من الضّروري أن نقوم بذلك أوّلًا في علاقتنا الشّخصيّة معه، وفي التزامنا في مسيرة توبتنا اليوميّة. وأن نقوم بذلك أيضًا، بكوننا كنيسة، فنعيش معًا انتماءنا إلى الرّبّ يسوع وننقل البشرى السّارّة إلى الجميع (راجع المجمع الفاتيكانيّ الثّاني، دستور عقائدي في الكنيسة، نور الأمم، 1).
أقول هذا لنفسي أوّلًا، بصفتي خليفة بطرس، وأنا أبدأ رسالتي هذه كأسقف للكنيسة في روما، والمدعوَّة إلى أن تترأّس الكنيسة الجامعة بالمحبّة، بحسب التّعبير المعروف للقدّيس أغناطيوس الأنطاكيّ (راجع الرّسالة إلى أهل رومة، المقدّمة). فهو، بينما كان يُقتاد وهو مقيَّدٌ بالسّلاسل إلى هذه المدينة، مكان استشهاده الوشيك، كتب إلى المسيحيّين فيها قال: "سأكون حقًّا تلميذًا ليسوع المسيح، عندما لن يرى العالم جسدي" (الرّسالة إلى أهل رومة، 4، 1). كان يشير إلى الوحوش في السّيرك التي ستفترسه - وهذا ما حدث بالفعل -، لكن كلماته تذكّرنا بمعنى أوسع بالتزام لا يمكن أن يتخلّى عنه أيّ شخص في الكنيسة يمارس خدمة السّلطة: وهو أن نختفي ليبقى المسيح، وأن نصير صغارًا نحن لكي يُعرَف ويُمجَّد هو (راجع يوحنّا 3، 30)، وأن نبذل أنفسنا إلى أقصى حدّ حتّى لا تَنقُص الفرصة لأيّ أحد لكي يعرفه ويحبّه.
ليمنحنا الله هذه النّعمة، اليوم ودائمًا، بمعونة وشفاعة سيّدتنا مريم العذراء، أمّ الكنيسة الجزيلة الحنان.
© Bollettino Santa Sede - 9 maggio 2025